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Pitti Immagine Uomo 86 dal 17 al 20 giugno 2014

Manca veramente una manciata di giorni all’atteso evento che rappresenta la piattaforma più importante a livello internazionale per le collezioni di abbigliamento e accessori uomo e per il lancio dei nuovi progetti sulla moda maschile.

Quella che si aprirà il prossimo 17 giugno a Firenze, sarà la 86° edizione del Pitti Immagine Uomo e rappresenta nel contempo anche il 60° anniversario dell’ attività per il Centro di Firenze per la Moda Italiana.

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Ancora una volta, il Pitti Immagine Uomo sarà la finestra più importante sul panorama italiano in fatto di proposte del menswear di domani, di progetti speciali dei designer di punta internazionali, fino allo spazio riservato ai nuovi talenti. A Pitti Uomo, la moda maschile trova la sua dimensione più completa, innovativa e market oriented.
Chi fosse interessato ad approfondire la storia del Pitti Immagine può farlo qui
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Saranno circa 1030 i marchi di Pitti Uomo, con un focus sempre più forte sull’internazionalità, confermato dalle partecipazioni estere (quasi il 40% delle aziende a questa edizione, da oltre 30 paesi) e dal pubblico dei “buyer” che formano la community di Pitti Uomo (oltre 30.000 visitatori all’ultima edizione estiva) in rappresentanza di tutti i negozi e department store più importanti del mondo. 
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Visto dall’occhio dei blogger il Pitti Uomo è anche l’occasione per conoscere ed incontrare nuovi e vecchi “amici” ed accrescere la propria posizione in questo mondo a metà tra il giornalismo ed il puro “gossip”. Ma è soprattutto una sintesi completa delle nuove tendenze, dei nuovi brand e “must have” che animeranno i “red carpet” dei prossimi mesi, ed è pertanto un appuntamento irrinunciabile.
Possono accedere solamente gli “addetti ai lavori”, che siano essi buyer, espositori, giornalisti o blogger. Gli altri rimarranno inesorabilmente fuori e non potranno che leggere ed “assaporare” le sensazioni e  l’aria che si respira per il tramite dei numerosi articoli, recensioni e  foto che circoleranno di qui a poco sulla rete italiana ed internazionale.
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Se mi vedrete a Firenze  tra il 17 ed il 20 giugno prossimi, vorrà dire che ce l’ho fatta! Chissà…
La caccia all’accredito è aperta! 
Alla prossima!
Aboutaman

Accessorio…necessario

Spesso si parla di quanto la cura del particolare renda unico e distintivo un oggetto o una persona. E’ per questo che vorrei dedicare qualche articolo per parlare di accessori e di quanto, a volte, nascosti o poco visibili facciano la differenza tra un bel look ed un semplice “carino ma manca qualcosa”. 

Mi capita, a volte di parlare con persone che investono molto per acquistare scarpe, vestiti, camicie ma che alla vista appaiono, come dire, incomplete. Già, perché l’accessorio svolge la funzione di “collante” tra i vari elementi di un look, e li lega come farebbero le uova in un impasto. Certo non bisogna esagerare, e quindi essere adorni di tutto il possibile andando a nascondere o rovinare anche i più iconici dei capi di abbigliamento. Dico solamente che, uscire di casa senza accessori è uno spreco di potenzialità.

E’ per questo motivo che gli accessori nascondono un paradosso intrinseco nel loro nome, essendo quanto mai necessari! 

Tra i tanti accessori, chi ha resistito a molti inverni continuando a suscitare l’interesse e la bramosia di ogni uomo, è senz’altro lui…..l’orologio, ormai non più oggetto per conoscere l’ora, ma vero e proprio “status symbol“.

I marchi noti sono sempre gli stessi e la lista appare in continua evoluzione:

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Ma come nasce l’orologio moderno?

Le origini sono quanto mai funzionali e solo nel tempo l’orologio assurge a vero e proprio gioiello nel guardaroba maschile e femminile. Infatti, la prima forma di segna-tempo apparve con la ”meridiana“, cioè un paletto conficcato nel terreno che, a seconda della posizione del sole, proiettava l’ombra dello stesso paletto sul terreno, dando così la possibilità agli antichi di capire in quale momento della giornata si era giunti. La grande problematica di questo sistema per la “lettura” era l’impossibilità di poter “leggere l’ora” in assenza del sole, quindi nelle ore notturne e nei periodi invernali per gli antichi era un problema che doveva essere risolto ben presto.

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Dopo la meridiana venne inventata la clessidra che in origine era caratterizzata dal fuoriuscita dell’acqua, da un contenitore a forma di cono, raccolta in un recipiente sottostante dando così la possibilità di poter “misurare” il livello raggiunto dall’acqua caduta. Questo sistema di misurazione venne adottato molti secoli dopo per la realizzazione degli orologi ad acqua.

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Fino al 1200 si susseguirono diversi stratagemmi per tenere traccia del tempo, ma è solo nel 1300 che, in Francia si ha il primo prototipo di orologio moderno, posizionato su di un campanile. In seguito nacquero anche i primi orologi da tavolo caratterizzati da un sola lancetta, cioè quella delle ore, ma ovviamente la precisione del minuto non esisteva, si poteva solo approssimare al quarto d’ora.

A prendere il posto di questi orologi da tavolo, furono i tanto amati ed eleganti orologi a pendolo, rimasti peraltro un oggetto d’arredamento fino ai giorni nostri. La prima forma di orologio a pendolo nacque nel 1657 ed era costituito da una barra, di legno o di metallo, tenuta ferma da un’estremità libera dall’altra, dove era collocato un peso che serviva ad effettuare delle tarature per settare la precisione.

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Da questo momento in poi furono diversi i tentativi di inventare un sistema sempre più preciso e sempre meno ingombrante per dare la possibilità a tutti di poter leggere il tempo in qualsiasi momento, e in qualsiasi luogo. E’ così che nacque l’orologio da taschino e poi, agli inizi del 900 i primi orologi al quarzo, perfezionati negli anni 60 per dare la possibilità di essere liberamente portati con se.

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Fu Patek Philippe, che inventò il primo orologio da polso, inizialmente utilizzato solo dalle donne. Per l’uomo si dovette scomodare Cartier, il quale realizzò per un suo amico pilota d’aerei un orologio da polso maschile. Da qui la storia è quasi contemporanea con il susseguirsi di nuove invenzioni che apportarono migliorie all’orologio, fino ad arrivare ai primi orologi a batteria, di cui Seiko, fu il pioniere che realizzò orologi a quadrante analogico con meccanismo mosso dall’elettricità di una piccolissima batteria.

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Ad ogni modo gli orologi più prestigiosi rimangono quelli con movimento meccanico, automatico inventati dalla Rolex, un azienda che non ha bisogno di presentazioni, che continua a regalarci ogni giorno momenti di assoluta raffinatezza.

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E’ vero, dirà qualcuno, che l’orologio al quarzo è più preciso di uno automatico ma anche un robot è più perfetto di un uomo….ma non per questo aspirerà mai a possedere il fascino dell’umana unicità.

Alla prossima con altri accessori maschili!

Aboutaman

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Intervista a Valentino Ricci co-fondatore di “Sciamàt”

Oggi ho l’onore di inaugurare questa sezione dedicata ai personaggi che reputo più influenti e interessanti del mondo della moda e della sartoria, con l’intervista rilasciata da uno dei più grandi ed eleganti “maestri” della sartoria contemporanea, capace di creare uno stile che non trova un geometrico posizionamento all’interno della scuola napoletana o inglese, ma che, anzi si è imposto come uno stil novo, originale e fonte di ispirazione per molti altri sarti italiani ed internazionali.

Ci eravamo lasciati nel precedente articolo l’abito sartoriale con alcuni quesiti che riguardavano le varie differenze tra scuole di sartoria e sopratutto ci siamo chiesti cosa distingue un abito fatto “in serie” da uno “sartoriale”.

La principale differenza la troviamo nell’astratta impossibilità per il primo capo di appartenere morfologicamente al suo acquirente e, viceversa, anche a dispetto di qualche piccola imperfezione, nell’astratta capacità del secondo di potersi innestare quasi biologicamente al corpo del suo committente. Astratta perché non è da escludersi che un capo fatto “in serie” possa coincidere col corpo di chi lo compra e che un capo “sartoriale” – o perché male eseguito o perché male commissionato – possa restare slegato dal suo destinatario.

Altra grande differenza tra i capi in serie e quelli sartoriali sta nella impossibilità di imprimere ai primi quel gusto personale che dovrebbe caratterizzare sempre lo stile dei secondi. Anche qui uso il condizionale non a caso, ma proprio perché, al di là di un più generale concetto di gusto c.d. “inglese” o “napoletano” , nessun sarto è riuscito in particolare a caratterizzare agiograficamente le sue creazioni al punto da attirare a se una clientela desiderosa di vestire partendo da una nuova premessa stilistica e modellistica. Infatti, fermandoci un attimo a riflettere, esistono differenze stilistiche e/o modellistiche tra i vari e numerosi sarti napoletani? E’ astrattamente possibile attribuire la specifica paternità di uno o più vestiti cuciti a Napoli senza andare a leggere l’etichetta interna?  E’ differente, cioè, l’abito del sarto napoletano Tizio da quello del sarto napoletano Caio? No!

A Napoli tutti i sarti cucinano lo stesso piatto. E così succede a Milano e a Londra.

Pertanto, se si può parlare di differenze fra la scuola napoletana e quella milanese e/o inglese, non è possibile evidenziare differenze sostanziali fra i vari appartenenti alle diverse e predette scuole e non si può attribuire a nessuno di loro capacità distintive degne di nota.

Ma è da chi e da dove non ti aspetti che arriva un esempio di gusto, di stile  e di modello che esce fuori da ogni schema e che sta dando un forte scossone a questa sartoria stanca e noiosa.

E’ Valentino Ricci, un avvocato pugliese che con il suo ormai famoso marchio Sciamàt, più che restaurare una vecchia immagine di vestito, ne ha proposta una completamente nuova e originale.

Si parte con le spalle, la cui linea appare concava e non tristemente  convessa, e si prosegue con tutta una serie di innovazioni che hanno portato Sciàmat a diventare  in poco tempo un brand riconoscibile in tutto il mondo.

E’ una storia di gusto che, contaminato da una deformazione professionale, vede un brevetto per ogni dettaglio e che, come accade per tutti i grandi, a dispetto dei suoi imitatori e falsi profeti, registra clienti che arrivano in Puglia da ogni parte del mondo. Ed è una storia così interessante che ho raggiunto telefonicamente il suo principale protagonista per avere maggiori informazioni utili a capire cosa rende unici al mondo i suoi abiti e le sue giacche.

D: Come nasce Sciamàt, e cosa l’ha spinto a cambiare vita e lavoro, avendo fatto studi giuridici?

R: Sciàmat nasce per assecondare una personale passione che ho sempre avuto per gli abiti di sartoria e prende vita nel momento in cui decede il sarto a cui avevo affidato la costruzione dei miei personali vestiti dal 1985 al 1998 e mi ritrovo orfano della possibilità di proseguire, dal punto in cui ero arrivato e con chicchessia altro sarto, il mio percorso sartoriale.
Dopo quindici anni e non so quanti vestiti sbagliati mi convinsi, infatti, che solo aprendo io una sartoria e mettendo il sarto “a stipendio” avrei potuto fargli fare esattamente l’abito che avevo in mente,  senza dover continuare a lottare con quei pregiudizi che un qualsiasi sarto “autonomo” è abituato ad opporti o quando tende ad andare ultra petitum o, più ricorrentemente, quando non è capace di fare quello che di nuovo per lui può venirgli richiesto. phpThumb_generated_thumbnailjpg (1)phpThumb_generated_thumbnailjpg (6)Pur parendomi buona e sensata l’idea del “sarto a stipendio”, mi resi conto, al 4^ anno di attività, che nessuno dei sarti che si erano avvicendati alle mie dipendenze era capace di farsi da parte e di eseguire con scevra maestria e nuda professionalità il progetto vestimentario affidatogli di volta in volta, e sempre mio tramite, dai diversi clienti che mi onoravano della loro committenza. Mi armai di coraggio,  mi confrontai con nessun altro se non con me stesso e decisi che era giunto il momento di aggiuphpThumb_generated_thumbnailjpgngere le mani alla faccia che avevo messo sino a quel momento nella mia attività, e che questa da secondaria che era, sarebbe diventata, più che primaria, l’unica e sola.
Come avevo sino ad allora sempre visto fare, stesi un taglio di stoffa sul tavolo da lavoro, ne controllai il verso, vi posizionali a filo dritto il mio cartamodello che segnai a gesso e tagliai per la prima volta un (mio) vestito. E mentre mi sembrava di aver fatto tutto quanto andava fatto, mi resi conto che “il dietro” della giacca lo avevo segnato e tagliato senza “rimesso al fondo”; così trovandomi nella necessità di ordinare un altro metro di stoffa per un “dietro” nuovo, ma allo stesso tempo colla certezza che da quel momento nessun altro avrebbe mai più tagliato un vestito nella mia sartoria. E’ vero, come Lei stesso dice quando mi fa la domanda, che cambiarono la mia vita e il mio lavoro e che persero senso quasi completamente i miei studi giuridici, ma, a dispetto di tutti i sarti esistenti, è anche vero che da allora si accese una originalissima stella nel firmamento della sartoria mondiale: Sciamàt!

 D: Come potrebbe definire il suo stile? E’ possibile ricondurlo alla tradizione   sartoriale napoletana?

R: Lo stile Sciàmat non vuole, non può e non deve essere ricondotto ad alcuna tradizione sartoriale. Il mio stile, infatti, è frutto soltanto di una personalissima ed originale idea di vestito che – debbo essere sincero – pare essere molto condivisa sino ad essere diventata, questa si, fonte di inspirazione per molti.
Al fine di escludere ogni possibilità  di ricondurre il mio stile a quello napoletano, posso dire che a Napoli la I^ "pinces" sul davanti della giacca arriva fino al fondo, mentre nel mio caso muore quando  inizia la tasca; inoltre non conosco sartorie napoletane che indirizzano il "cran" a 90 gradi, come faccio io da sempre; a Napoli la “scolla” (rectius linea di cucitura che unisce collo e petto) ha una direzione diversa dalla linea di cucitura delle spalle, mentre nel mio caso le due linee sono parallele; a Napoli, proprio in consiphpThumb_generated_thumbnailjpg (9)derazione della direzione della “scolla”, il collo lascia ai "revers" libertà di movimento verso il basso, mentre nel mio caso i "revers" restano sempre fermi dove li inchiodo col collo; a Napoli i rimessi della manica  vengono sottomessi a quelli della spalla e, assieme a questi, girati sotto la spalla medesima, mentre nel mio caso avviene l’esatto contrario; a Napoli non si sono mai visti (al di là di qualche vile e recente tentativo di copia) spacchi posteriori fermati a più di 30 cm dal fondo come, invece, è sempre avvenuto nel mio caso; a Napoli sempre a dispetto di millantate quanto bizzarre, vacue e banali pretese di simili anteriorità, non si sono mai viste (esclusi i soliti vili e recenti tentativi di copia) forme di tasca a toppa come quelle inventate e brevettate dal sottoscritto; a Napoli non si nono mai viste e/o prodotte giacche con spalle concave, pur assolutamente prive, come nel mio caso, di ogni relativa imbottitura; così come non si sono mai prodotte giacche prive di ogni e qualsivoglia sostegno interno che, purtuttavia, e come nel mio caso, sono capaci di restare educate e composte quando le tieni addosso a differenza di quelle tante giacche talmente piene all'interno da sembrare soltanto corazze o scafandri e, comunque, incapaci di tenere quella compostezza.
Con ciò mi auguro di essere riuscito a dimostrare come Napoli non sia la fonte ispiratrice del mio stile che, assai più modestamente, trae sostanza dalla mia personalità e sintetizza il bagaglio esperienziale che la nutre. Ciò non significa che Napoli, al pari di Londra, non rappresenti una tradizione sartoriale unica e degna sul serio di essere definita tale e piena di una serie di segreti talmente irriducibili che la loro valenza saràper sempre.

D: Cosa pensa in merito al futuro della sartoria italiana tenuto conto dell’apertura dei mercati?

R: Il futuro della sartoria italiana dovrebbe essere il più roseo, specie se si tiene conto dell’apertura del mercato, eppure sembra quello Atelier 2esposto al peggiore dei rischi, giacché, se non interviene un cambio di mentalità, di abitudini e di costumi, rischia l’estinzione, potendosi trovare già con i nostri figli priva di alcun senso, rispetto ad abitudini vestimentarie che, per la verità, penso siano già oggi più definitive di quanto non sembri.

bn_sciamat_eventsluis_wl_7023D: Se dovesse in tre aggettivi descrivere il suo stile, quali sarebbero?

R: Aristocratico, sensuale, originale.

Un ringraziamento particolare a Valentino Ricci, vero Gentleman di altri tempi, per il tempo dedicatomi e la passione che mi ha trasmesso con le sue parole ed il suo lavoro.

Spero quest’articolo Vi sia piaciuto, quanto a me ha emozionato scriverlo, arricchendo con una nota di eleganza questa mia modesta finestra sul mondo del bel vestire 😉

Stay bespoke!

Aboutaman 

okdscn7903_1Ph credits: http://www.sciamat.com

Follow the fashion and (or) dress well

Seguire la moda o vestire bene? A volte si confondono questi due concetti fino al punto da considerare commutativa la loro interazione.

Seguire le mode, a volte può sfociare in una vera e propria malattia chiamata, “sindrome da shopping compulsivo”. Non credo di sbagliare dicendo che questa malattia è figlia dei nostri tempi, ed è quotidianamente alimentata dal marketing e dai media che ci impongono sempre nuovi modelli di riferimento. E’ chiaro ovviamente che, dietro l’ossessione compulsiva all’acquisto si nascondono spesso dei problemi psicologi che trascendono dal concetto puro di cui stiamo parlando, però dobbiamo aver presente che questo potrebbe essere l’estremo punto di arrivo quando si cade nella frenesia e nell’insicurezza personale.

Vestire bene, invece, non ha controindicazioni, e già questo pone i due concetti su piani completamente differenti.

Ma come si fa nella pratica a non confondere il “seguire la moda” con il “vestire bene”. E’ una distinzione di non poco conto che richiede una cultura ed un’autostima decisamente “forti”; tuttavia una volta fatta “nostra” ci permetterà di dimenarci nella ragnatela delle sollecitazioni che la moda ci propone, aiutandoci a prenderne solo i lati positivi, senza viverla come una sorta di “rigido dettame”. Molte tendenze nascono, infatti dal nulla, ed è sufficiente che a lanciarle sia un attore o cantante, per renderle “virali” ed immediatamente desiderabili, fino a diventare un must have, con conseguente “strisciata” della carta di credito. Ma cos’è un must have ? Per rispondere ci basta fare una passeggiata per le vie del centro. Quante ragazze più o meno cresciute indossano un “hot pants”? Ormai sono praticamente presenti su ogni bacino femminile che si rispetti…ma è vero il contrario? Cioè l’hot pants è contento di stare su tutti i bacini?  Forse risponderebbe di no, se venisse interpellato, ma se il capo diventa, appunto, un “must have” non c’è scampo! Può capitare che il cieco desiderio abbia la meglio sulla blanda ragione e così…

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Ok

Meno ok

Meno ok 😉

Nel mondo maschile le cose non vanno meglio, anzi ormai vi è la radicata tendenza a portare gli abiti di una taglia in meno ma, direte voi, che c’è di male? Nulla, tranne quando si viene puntati da qualche bottone in partenza!! Sopra certe camicie dovrebbero scrivere: vietato sedersi! Idem accade anche per i pantaloni, con l’ormai consacrata tendenza a stringerli fino a mettere a repentaglio la propria capacità riproduttiva!

Ma cos’è che crea la moda? La risposta è complessa ma, forse, si potrebbe sintetizzare con un sostantivo: desiderio. In tal modo introduciamo un altro elemento che, a mio avviso andrebbe tenuto in considerazione quando si decide di “seguire una moda”. Infatti vi è di fondo una necessità di omologarsi, di sentirsi parte di un mondo non proprio, e vestendo in un certo modo, si pensa di poter essere come non si è. Rileggendo quest’ultima frase dovrebbe apparire chiara la contraddizione, ossia cercare di assomigliare a qualcuno per avere la stima e l’ammirazione altrui. Giorni fa, parlando con alcuni amici ragionavamo su chi, dignitosamente, tutte le mattine prende un treno, o un mezzo pubblico per andare a lavorare. In questi casi, come facciamo ad immaginare un outfit da “cartellone pubblicitario”? Ad esempio ho notato che sta tornando di moda la mantella da uomo e già nelle riviste specializzate ed in molte passerelle delle recenti fashion week si sono visti uomini indossarle disinvoltamente. Se volessi indossare la mantella in questione potrei continuare a prendere il treno? Quante chance avrebbe la mia mantella di sopravvivere al tragitto?

Tutto questo per dire, va bene, l’offerta è molto ampia e le sollecitazioni sempre più spinte, ma credo che per essere veramente “alla moda” dobbiamo sentirci bene nei “nostri” abiti, scegliendoli non solo perché indossati da altri, ma perché rappresentano realmente il nostro “io”. Ritengo, infatti che siamo vestiti bene tutte le volte che l’abito parla per noi come un’immagine riflessa di ciò che siamo, e se così facendo ci diranno che non siamo “trendy”, possiamo sempre rispondere che le mode passano, il buon gusto, resta!

Aboutaman

La pochette da giacca non è un “optional”

Cari lettori, avrete ormai capito che la “pochette” e’ per me ciò che i numeri sono per la matematica…
A molti potrà sembrare “un accessorio”, qualcosa “in più” che può anche non essere presente nel proprio armadio. Rispondo subito…punti di vista! Immagino (e dico immagino) che nessuno di noi uscirebbe di casa senza pantaloni, mentre senza pochette si, ed il punto cruciale, a mio avviso, è proprio questo; tutto ciò che non è necessario lo possiamo definire superfluo? Bene, allora la “pochette” è proprio quel superfluo che fa la differenza tra “coprirsi” e “vestirsi”.

La “pochette” è l’essenza di questo pensiero…

L’argomento richiama due ordini di considerazioni che ognuno di noi avrà  sicuramente fatto prima di indossarne una.

La prima è l’abbinamento. Spazziamo via ogni dubbio e diciamo che la “pochette” si può abbinare alla camicia, ma non deve essere obbligatoriamente dello stesso identico colore e trama. L’unica cosa che eviterei, invece, è di  legarla cromaticamente alla cravatta, nonostante le tentazioni, soprattutto nel periodo natalizio sono tante….chi non ha mai ricevuto una scatola con cravatta e “pochette” abbinata? Ovvove!!

Per il resto siamo in una zona grigia dei dettami della moda…qui le regole non sono rigide e l’unica cosa che veramente conta è l’effetto globale dell’outfit, che deve essere armonizzato dalla “pochette”, non mortificato.

La seconda considerazione riguarda il modo di ripiegarla nel taschino. Anche qui grande spazio alla fantasia, che può spingersi oltre le classiche forme geometriche quadrate o a punta, sconfinando anche in una sorta di “disordine” casuale che mi piace pensare, rispecchi quello interiore 🙂 Il Furio di “Bianco, Rosso e Verdone” lo ripiegherebbe senz’altro quadrato, vero Magda??

28/02/2014

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A due o più punte

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A punta singola, al centro

Personalmente mi piace così, “finto” disordinato, in quanto mi sembra che dia un po’ di “movimento” alla giacca, senza per questo spezzarne l’armonia.

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28/02/2014

Infine, lasciatemelo dire, la pochette ha una valenza anche psicologica poiché indossarla e’ spesso sinonimo di sicurezza del suo proprietario, non affatto intimidito dal sembrare a volte spavaldo o fuori luogo…ma d’altronde la moda e’ anche questo, altrimenti basterebbe un saio per uscire di casa, no? E allora osiamo!

Dimenticavo…l’unica cosa veramente vietata in fatto di “pochette” e’ usarla come un fazzoletto vero, a meno che non incrociate per la strada una ragazza (anche brutta mi raccomando!) che piange o guardate con vostro figlio “Lilli e il vagabondo”… 😉

Have a great week end!